Hollywood sotto attacco: Trump alza i dazi sui film esteri e il mercato trema

Donald Trump ha deciso di rimettere ordine a modo suo su Hollywood. E lo fa con la sua arma preferita: i dazi. Con un post diretto su Truth Social, ha annunciato l’intenzione di imporre una tariffa del 100% su tutti i film e contenuti audiovisivi prodotti all’estero e importati negli Stati Uniti. L’obiettivo? Salvare l’industria cinematografica americana da una “morte molto rapida”.

Il mercato ha reagito subito, come da suo solito. Netflix ha perso il 1,94% (interrompendo una serie di ben 11 sedute giornaliere consecutive, la più lunga della sua storia), Warner Bros Discovery l’1.99%, Paramount l’1,5%. Ma il danno vero non si misura in punti percentuali. Si misura nel modo in cui questo annuncio impatta le catene del valore, le logiche fiscali e le scelte strategiche che reggono oggi l’intera produzione globale di contenuti.

Il problema è che Hollywood, da anni, gira altrove.  L’estate scorsa Los Angeles ha registrato meno giornate di riprese rispetto al 2023, un anno già segnato dallo sciopero di sceneggiatori e attori. Non è un’anomalia. È un trend. Nel 2024, a Los Angeles sono stati autorizzati appena 23.480 giorni di riprese da troupe audiovisive, un calo del 5,6% rispetto all’anno precedente e del 31% rispetto alla media degli ultimi cinque anni.  I reality show sono crollati del 46%. Le serie scripted del 36%. E se c’è una cosa che i dati mostrano chiaramente è che la crisi non è più congiunturale. È strutturale.

Le produzioni si stanno spostando stabilmente fuori dagli Stati Uniti. Anche blockbuster come Wicked o Snow White sono stati girati nel Regno Unito. Netflix ha allocato oltre 8 miliardi di dollari, più della metà del proprio budget contenuti, su produzioni internazionali.

Disney ha fatto lo stesso con molti titoli Marvel. E lo ha fatto per una ragione semplice: i tax rebate fuori dagli USA sono più generosi. Il Regno Unito, l’Australia e il Canada offrono condizioni fiscali nettamente più vantaggiose della California. Georgia non ha limiti di spesa…E Hollywood si svuota.

Non è un caso. Il Regno Unito è oggi, dopo gli Stati Uniti, il secondo Paese per numero di film prodotti al mondo: quasi 4.900 pellicole, più della Francia, della Corea, del Giappone o della Germania. E con un budget medio di oltre 30 milioni di dollari a film, è una delle destinazioni preferite dalle major statunitensi. L’Italia, con oltre 2.300 titoli prodotti, ha un peso simile alla Germania. Il problema è che, se passa un dazio, questi Paesi, pur alleati, verranno trattati come produttori “esterni”. E penalizzati come tali.

I dazi non fermano questa fuga. La peggiorano. Perché colpiscono i contenuti girati fuori dagli Stati Uniti, anche se prodotti da aziende americane. Netflix, Disney, Warner Bros. Discovery: sono tutte aziende che controllano i contenuti, ma li producono dove conviene. Colpire l’importazione di film significa colpire il loro stesso modello operativo.  È lo stesso schema già visto con l’auto e abbigliamento. Ford e GM hanno ritirato le guidance nel Q1 2025 per l’incertezza legata ai dazi su Cina e Messico. Una politica pensata per proteggere le imprese locali ha finito per colpire proprio quelle più internazionalizzate. Con il cinema rischia di accadere lo stesso. Solo che stavolta, oltre al valore economico, c’è di mezzo il soft power.

Perché i contenuti audiovisivi sono anche geopolitica. E il dazio sui film è un messaggio al resto del mondo. L’Europa lo ha capito. E inizia a muoversi. Emmanuel Macron ha rilanciato l’idea di una piattaforma mediatica paneuropea. Un Airbus dello streaming. Insieme al futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz. Al centro c’è ARTE, l’emittente culturale franco-tedesca. Ma l’ambizione è più ampia: creare un’infrastruttura continentale per difendere la sovranità culturale e affrontare le guerre commerciali anche sul fronte digitale. Intanto, i numeri raccontano un’altra storia. Dal 2016 a oggi, Netflix ha guadagnato oltre il 940%. TF1, M6, ITV, ProSiebenSat e MediaForEurope hanno perso tra il 9% e l’87% del proprio valore.

Lo sguardo al portafoglio

Per chi investe, la domanda chiave è semplice: chi rischia di più? E chi può sfruttare il caos?

Netflix resta il fulcro del sistema. Ha costruito la sua supremazia sulla capacità di girare ovunque. E ovunque oggi significa fuori dagli Stati Uniti. Più del 50% del budget contenuti nel 2024 è stato allocato all’estero. I numeri lo confermano: +27% da inizio anno, +32% a un mese, P/E sopra 42 volte. Ma se il dazio passasse davvero, l’agilità operativa potrebbe trasformarsi in rigidità fiscale. Il rischio? Margini sotto pressione e rotazione settoriale.

Disney continua a pagare la transizione tra cinema tradizionale e streaming. I contenuti Marvel, ormai delocalizzati, sono vulnerabili al nuovo shock regolatorio. Il titolo tiene (+10% nell’ultimo mese), ma è ancora sotto del 17% da inizio anno. E scambia a 17x utili forward, ben sotto Netflix.

Warner Bros. Discovery è il nome più fragile del gruppo. A -20% YTD, -17% a tre mesi, scambia a sconto ma senza il bilancio per reggere. Il rischio qui non è la volatilità, è la sostenibilità. Un dazio potrebbe costringerla a rivedere tutto: pipeline, investimenti, catalogo.

Amazon è meno sensibile. Prime Video è una linea accessoria, non il core business.

CJ ENM è l’equivalente asiatico del soft power culturale. Produce in Corea, vende a tutto il mondo. Se l’America chiude, CJ perde il suo cliente premium. Il titolo è giù del 34% dal massimo storico, ma ha rimbalzato del +12% a tre mesi. Margini interessanti, ma geopolitica ostile.

Banijay è il caso europeo. Quasi 13% di ritorno YTD, scambia a 9,8 volte gli utili, ma resta sotto del 76% dai massimi storici. È il più grande produttore indipendente d’Europa. MasterChef, Big Brother, Peaky Blinders: tutti format nati per viaggiare. Se il confine diventa una barriera, anche la distribuzione diventa un rischio.

E poi c’è il dato aggregato: in media, i titoli del comparto scambiano a 33,5 volte gli utili, con un drawdown medio dai massimi storici del 48%. Il mercato ha già scontato che qualcosa si è rotto. Ora resta da capire se c’è ancora tempo per aggiustarlo.