Fed giugno 2025: nessun taglio, ma un messaggio forte su inflazione e indipendenza

Alcuni l’hanno liquidata così: “la Federal Reserve ha fatto quello che il mercato si aspettava, ovvero nulla”. Ma è proprio in quel “nulla” che si nascondano le sfumature più interessanti. Perché la Fed ha scelto sì di restare ferma, ma lo ha fatto con più consapevolezza e meno incertezza. E questo è un cambio di tono che conta.

Partiamo dalla fine, dai numeri. Wall Street ha chiuso in leggero ribasso (-0,03%) il giorno del meeting di giugno, interrompendo la serie positiva delle ultime due riunioni Fed (maggio +0,43%, marzo +1,08%) e portando in perfetta parità il bilancio delle sedute FOMC dal gennaio 2022 a oggi: 14 rialzi, 14 ribassi. Eppure, tra l’ultimo meeting (del 7 Maggio scorso) e l’altro (quello di ieri),  l’S&P 500 ha messo a segno un +6,2% – un rally che non si annotava dal +7,8% dello stesso periodo del 2024. Il dato che sorprende di più? La volatilità intraday di ieri: appena 0,8%, in netto calo rispetto all’1,4% di maggio e all’1,7% di marzo. Segno che i mercati iniziano a metabolizzare la postura attendista della Fed come parte integrante del nuovo regime.

Grafico eToro della performance dell’indice S&P 500 tra i vari meeting FOMC dal 2022 a giugno 2025. Evidenzia le performance dell'indice tra un meeting Fed e l'altro e la variazione intraday per ciascuna riunione

E proprio il dot plot aggiornato ieri, a un primo sguardo apparentemente immobile, racconta molto più di quanto sembri. Le proiezioni dei Fed Funds per il 2025 restano invariate al 3,9%, ma sotto la superficie si muove qualcosa: aumenta il numero di membri che vedono i tassi al 4,25%, da 4 a 7, mentre il blocco che ipotizzava una discesa più marcata inizia a sfilacciarsi. Ancora più netto lo slittamento nel 2026, dove cresce il peso della fascia tra 3,5% e 4%, e si indebolisce l’idea di un ritorno a 3,25%. È un modo silenzioso ma inequivocabile per dire: la traiettoria dei tagli si fa più lunga, più prudente, meno lineare.

Confronto dei Dot Plot della Fed tra marzo e giugno 2025. Si osserva uno spostamento verso l’alto nella distribuzione dei punti per il 2025 e 2026, indicando una Fed più restrittiva e maggior cautela nella traiettoria dei tagli.

Ma anche il mercato, in fondo, lo aveva già intuito. Lo spread tra i futures SOFR dicembre 2025 e i Fed Funds dicembre 2026 (SR3Z25 – ZQZ26) ha toccato nuovi minimi proprio nelle ore precedenti al meeting. È un segnale chiaro: la discesa dei tassi non sarà né ripida né rapida. Sarà più breve, più cauta, più condizionata. Non è un’inversione del ciclo, ma il riconoscimento che il sentiero accomodante perderà slancio. Il mercato ha già rimosso mezzo taglio dal pricing del 2025.

Grafico dello spread tra i Fed Funds Futures di dicembre 2025 e dicembre 2026. Il differenziale ha toccato nuovi minimi a -63,5 punti base, segnalando un’accelerazione delle aspettative di easing nel corso del 2026.

Una lettura che trova riscontro anche nel grafico delle probabilità implicite sui Fed Funds per dicembre: il 94,6% degli operatori sconta almeno un taglio, ma il baricentro si è spostato verso l’alto. 

Grafico delle probabilità implicite nei Fed Funds Futures per il meeting FOMC del 10 dicembre 2025. Il mercato assegna oltre il 94% di probabilità a un taglio dei tassi, con maggiore concentrazione nell’intervallo 375–400 punti base.

Le nuove proiezioni macro non fanno altro che consolidare questa impressione. Il PIL 2025 viene rivisto da +1,7% a +1,4%, quello del 2026 da +1,8% a +1,6%. L’inflazione, invece, sale. Il dato headline per il 2025 passa da 2,7% a 3,0%, e la core da 2,8% a 3,1%. Segno che i dazi e le tensioni nei prezzi stanno mordendo più del previsto. Ma attenzione: rallentamento non significa recessione. E la scelta semantica lo conferma. A maggio, Powell ha citato quattro volte la parola “recessione”. Ieri? Nessuna. 

A cambiare, insomma, non è tanto la traiettoria quanto la postura. La narrativa di “elevata incertezza”, usata in modo insistente tra marzo e maggio, viene ora sfumata: “l’incertezza è diminuita, ma resta elevata”. I dazi, che a maggio erano considerati “significativamente più grandi del previsto”, a giugno vengono ricollocati nel tempo: “hanno raggiunto il picco in aprile, da allora l’impatto atteso è sceso”. È il passaggio dalla fase reattiva a quella osservativa. La Fed resta vigile, ma meno tesa.

Eppure, qui emerge il paradosso. Mentre il quadro della crescita si indebolisce, l’inflazione PCE per il 2025 viene rivista al rialzo dal 2,7% al 3,0%, e la core PCE accelera ancora di più, da 2,8% a 3,1%. Un delta di +0,3 punti su entrambi i fronti in soli tre mesi: un segnale inequivocabile che la discesa dei prezzi è più lenta del previsto e che la componente sottostante resta viscosa. In altre parole: l’inflazione rallenta, ma non cede.

Nel frattempo, anche il mercato del lavoro si dimostra più resistente: il tasso di disoccupazione previsto per il 2025 sale da 4,4% a 4,5%, con il 2026 rivisto anch’esso al rialzo, da 4,3% a 4,5%. Numeri che parlano di una Fed costretta a tenere i tassi alti più a lungo proprio perché il sistema regge. Nessun crollo occupazionale, nessuna recessione tecnica. Solo una frenata controllata.

Grafico delle proiezioni FOMC di giugno 2025 su tasso Fed, inflazione core PCE, disoccupazione e crescita reale del PIL fino al 2027. Mostra la progressiva revisione al rialzo del tasso terminale e dell'inflazione, con crescita stabile intorno all’1,8% e disoccupazione sopra il 4,0%.

La Fed prende atto della realtà. I tagli ci saranno, ma non in corsa. Non prima che l’inflazione – e l’incertezza legata alle pressioni inflattive dei dazi – diano segnali credibili di rientro. Finché questo non accade, la politica monetaria resterà in posizione di guardia. Uno sgarbo alla Casa Bianca e a chi sperava in un nuovo stimolo della Fed sui mercati, ma allo stesso tempo un atto di disciplina istituzionale. Perché Powell ha ribadito che la politica monetaria non può essere ostaggio dell’elettorato né della volatilità politica. Né tantomeno della pressione mediatica. Anzi, quando si cerca di metterla all’angolo, la reazione è opposta: non muoversi, per affermare la propria indipendenza.

Il “nulla” di giugno, in realtà, è stato un segnale chiarissimo: nessuna concessione prima che i numeri la giustifichino. E finché l’inflazione resta appiccicosa, e le tensioni tariffarie ancora aperte, l’idea stessa di un sostegno monetario preventivo è fuori discussione. Non è una Fed che frena. È una Fed che si sottrae alla narrativa dell’urgenza. Alla tentazione di assecondare il ciclo politico. Alla retorica del “più tagli, più mercato”.