Un titolo che divide. Che trasforma i clienti in tifosi, con un CEO che è insieme vento in poppa e mare contrario. Quando si distrae, che sia stato per acquistare Twitter o per gestire DOGE, l’azienda lo sente, e la volatilità si fa biografia. Ma con il nuovo piano da un trilione di dollari, il matrimonio tra Musk e Tesla è stato rinnovato: un patto decennale che fonde visione e controllo, promessa e potere.
Durante l’assemblea annuale di ieri sera, il verdetto è stato netto: oltre il 75% dei voti favorevoli al “CEO Performance Plan 2025”, un pacchetto che vale potenzialmente un trilione di dollari in azioni e che allinea la remunerazione di Musk a traguardi quasi cosmici. L’obiettivo non è solo economico, ma ideologico: portare la capitalizzazione da 1,4 a 8,5 trilioni di dollari in dieci anni, immettere nel mercato un milione di robotaxi e altrettanti robot umanoidi Optimus. Un piano che, se raggiunto, riscriverebbe la scala dell’industria e, di riflesso, quella del potere tecnologico globale.
Tradotto in numeri, la sfida implica un tasso di crescita composto del 19,8% annuo, una moltiplicazione del valore di Tesla di circa sei volte in un decennio. Un ritmo che oggi sembra vertiginoso, ma che per Musk resta nel solco della storia: negli ultimi cinque anni il titolo ha registrato un CAGR vicino al 25%, e se si allunga lo sguardo a dieci anni, la media sale attorno al 40%. In altre parole, l’obiettivo è ambizioso ma non estraneo alla grammatica con cui Tesla ha finora riscritto il proprio tempo.
La votazione è arrivata a mercati chiusi e largamente scontata, con Polymarket che prezzava oltre il 90% di probabilità di via libera.

Oggi il titolo sale in premarket, +1,6% al momento della stesura, segno che il mercato preferisce un Musk in sella a qualsiasi alternativa. Ma la reazione positiva non cancella il paradosso. Le stime sugli utili per azione (EPS Normalized Consensus NTM) sono scese di circa il -34% da inizio anno, attestandosi a 2,05 dollari, mentre il P/E NTM è salito del 67%, toccando quota 217 volte, quasi il doppio della media decennale di Tesla. Un multiplo che ormai non misura più i flussi di cassa, ma la fiducia nell’esecuzione di una visione, l’idea che la traiettoria conti più del risultato, e che l’innovazione, anche prima di generare utili, possa ancora riscrivere la legge di gravità dei mercati.
Il linguaggio usato durante l’assemblea spiega questa fede meglio di qualunque tabella. La presidente Robin Denholm, aprendo i lavori, ha parlato di “inflection point” (ha anche aggiunto di aver ripetuto questa frase 3.000 volte nelle ultime settimane), di una Tesla quasi che non compila bilanci, ma costruisce storia direi. Ha ricordato la nuova missione: raggiungere l’abbondanza sostenibile. Non più solo accelerare la transizione all’energia pulita, ma costruire un mondo in cui l’AI e la robotica garantiscano prosperità materiale senza distruggere la natura. Elon Musk ha cioè ribadito che, poiché l’obiettivo iniziale di accelerare l’avvento dell’energia sostenibile è stato in gran parte raggiunto, con le auto elettriche ora diffuse e la Model Y come veicolo più venduto al mondo, è necessario aggiornare la missione a causa dell’introduzione dell’AI e della robotica. Un concetto di “sustainable abundance” che Musk riprende in chiusura, definendo la missione aggiornata come la sintesi di due obiettivi: “consentire a tutti di avere ciò che desiderano, ma preservando la bellezza del pianeta”.
È un lessico da manifesto politico più che da assemblea degli azionisti. Ma è anche il cuore del nuovo libro, non di un nuovo capitolo, che Musk dice di voler scrivere. Nel suo intervento ha scandito numeri e ambizioni: 2,6–2,7 milioni di veicoli prodotti nel 2026, 4 milioni nel 2027, 5 milioni nel 2028, con la rete industriale tirata al limite. Ha annunciato la produzione del Cybercab, il primo veicolo progettato per guida totalmente autonoma, privo di volante e pedali, da aprile 2026. Ha rilanciato su Optimus 3, in uscita nel 2026, con un costo obiettivo di 20 mila dollari una volta stabilizzato il ritmo a un milione di unità l’anno. E ha descritto il robot umanoide come la chiave di volta di un’economia capace di crescere “di dieci, forse cento volte”, fino a definire Optimus “un infinite money glitch”.
Sul fronte AI, Musk ha offerto il passaggio più tecnico ma anche più rivelatore. Il chip proprietario AI5, progettato da Tesla, sarà – parole sue – paragonabile alle piattaforme Nvidia Blackwell ma con un terzo della potenza e meno del 10% del costo. La produzione è distribuita tra TSMC (Taiwan, Arizona, Texas) e Samsung (Corea). E se i partner non basteranno, ha detto, “costruiremo una Terraafactory – molto più grande di una Gigafactory – per i chip”. Una visione di autosufficienza verticale che, in caso di riuscita, trasformerebbe Tesla da utilizzatore di silicio in fabbricante di cervelli.
La scala è titanica. Ma la precisione con cui Musk dettaglia le tappe, fino al costo unitario di un robot, tradisce un messaggio ai mercati: la visione resta visionaria, ma il linguaggio è tornato industriale. Un milione di Optimus entro il 2026 non è una fantasia, è un target produttivo. Eppure, dietro la linearità apparente, l’esecuzione rimane un salto nel vuoto.
La realtà di bilancio obbliga al controcanto. In Europa, poi, i numeri sono fragili, con vendite in flessione in paesi chiave e share ceduta a favore di marchi cinesi come BYD, MG e Zeekr. Dove calano le immatricolazioni calano anche le detenzioni retail su eToro: Tesla è ancora seconda a livello globale e terza in Italia, ma tra i “fallers” trimestrali in Germania (19ª posizione), Italia (20ª), Danimarca (1ª), Olanda (7ª), Norvegia (4ª), Polonia (10ª), Spagna (9ª) e Svezia (1ª). La correlazione tra polso commerciale e sentiment dei retail investor è netta. Questo intreccio tra finanza e psicologia è il motivo per cui Tesla è più di un titolo: è un esperimento sociologico.
È l’unica tra le Magnifiche 7, ad oggi, a non aver toccato un nuovo massimo nel 2025, sebbene in rialzo del +56 % dal minimo di giugno, dopo cinque inversioni di mercato in meno di sei mesi. È un asset emotivo, in cui ogni parola del CEO diventa volatilità.
Tesla oggi è un portafoglio di opzioni reali: robotaxi, Optimus, AI5, FSD. Ognuna vale solo se le altre avanzano, perché ogni traguardo apre il successivo. È un modello compound, in cui il valore è il prodotto, non la somma, delle probabilità di successo. E il rischio è che la sequenza si rompa prima che arrivi la monetizzazione. Certo, da investitore, il problema non è “vale 217 volte gli utili futuri?”, ma “quale probabilità attribuisco all’attivazione di ciascun ramo? Chi vede Tesla come una semplice società automotive la giudica assurda; chi la vede come infrastruttura dell’intelligenza reale, la trova ancora sottovalutata. Entrambi hanno ragione a metà.
Il bias pro-Musk porta a scambiare la visione per la realtà; quello anti-Musk porta a ignorare il vantaggio dati e la perfetta verticalità software-silicio-fabbrica costruita in dieci anni. Il triangolo operativo (ruote, chip, robot) sta in piedi finché la base, cioè il cash flow, regge le capex e i regolatori non frenano. Se Optimus diventa il “nuovo iPhone” della robotica e il Cybercab raggiunge una scala urbana, Tesla potrebbe aprire una nuova era. Da qui il dibattito razionale: c’è una posizione costruttiva che resta long ma condiziona l’esposizione ai catalizzatori – licenze robotaxi, AI5, roadmap Optimus.
Il punto qui però è che Musk ha ottenuto ciò che voleva: il controllo formale per dieci anni e il mandato informale per riscrivere la frontiera tecnologica. Robin Denholm lo ha definito “the most ambitious inflection point in Tesla’s history”, e non è un’iperbole. Ma ora la storia deve passare dalla retorica ai conti. Il voto di ieri ha sancito il trionfo del mito; i prossimi trimestri diranno se l’esecuzione sarà all’altezza del mito stesso. Perché anche le leggende, quando entrano in bilancio, devono tornare a sommare.


