In un anno dominato dalla corsa dell’oro, dal dibattito sulla bolla o non bolla dell’intelligenza artificiale e dal ritorno dei listini europei sui massimi, con il FTSE MIB sopra i 44 mila punti, un altro mercato si è distinto per intensità e continuità. È il caffè.
Nel 2025 il caffè si è imposto come una delle materie prime più interessanti del mercato globale. L’Arabica, quotata sul contratto del Bovespa, si muove a 482 dollari per 60/kg, in rialzo del 20% da inizio anno. È il terzo anno consecutivo di crescita per una commodity che, lontano dai riflettori, ha mostrato una resilienza superiore a quella di molte asset class tradizionali.
Il percorso non è stato lineare. L’Arabica ha toccato il massimo dell’anno il 13 febbraio, per poi entrare in una fase correttiva durata 96 sedute, con un calo complessivo del 35%. Da agosto, però, l’equilibrio si è spostato di nuovo. L’entrata in vigore, dal 1° agosto, dei dazi del 50% imposti dagli Stati Uniti sulle importazioni di caffè brasiliano ha innescato nuove tensioni sull’offerta globale. Un intervento che ha colpito direttamente il primo esportatore mondiale verso il mercato americano: nel 2024 gli Stati Uniti avevano acquistato dal Brasile oltre 8,1 milioni di sacchi da 60 kg, circa un terzo del loro consumo totale. Dal 7 luglio il mercato ha invertito direzione, mettendo a segno un rimbalzo del 40% in 93 sedute, sostenuto da un contesto di offerta ancora rigida e da scorte certificate in costante riduzione. A ottobre, secondo i dati dell’ICO, le riserve di Arabica custodite a New York erano scese a 470 mila sacchi da 60 kg, in calo del 24% su base mensile, mentre quelle di Robusta a Londra risultavano pari a 1,01 milioni di sacchi, in diminuzione del 6,2%.

La Robusta ha seguito un ciclo diverso. Dopo aver toccato i massimi a febbraio, è entrata in un mercato ribassista di 109 sedute, con una perdita del 45% fino al 21 luglio. Da allora ha recuperato il 37%, ma il bilancio annuale resta negativo di circa il 10%.

La divergenza tra i due segmenti ha riaperto lo spread storico a favore dell’Arabica, riportando il differenziale tra le due varietà sui massimi triennali.

Il contesto produttivo spiega parte di questa asimmetria. Secondo il Coffee Market Report di ottobre dell’ICO, la produzione mondiale per la stagione 2024/25 è stimata in 177,5 milioni di sacchi, in crescita del 5,2%, a fronte di consumi pari a 175 milioni (+1,4%). Il surplus tecnico di 2,4 milioni di sacchi rimane insufficiente a compensare le carenze strutturali create nel 2024 da eventi meteorologici avversi come l’uragano Melissa in America Centrale, il tifone Kalmaegi nel Sud-Est asiatico e la scarsa piovosità nelle regioni brasiliane più produttive.
Sul fronte geografico, i dati del Cecafé confermano il rallentamento del Brasile. Tra gennaio e ottobre, le esportazioni sono state pari a 33,28 milioni di sacchi, in calo del 20% rispetto allo stesso periodo del 2024. Il solo mese di ottobre ha registrato 4,14 milioni di sacchi, contro i 5,18 milioni dell’anno precedente. La debolezza delle spedizioni brasiliane ha trovato compensazione nell’aumento dell’offerta asiatica: il Vietnam, primo produttore mondiale di Robusta, ha aumentato le esportazioni del 13,4% nei primi dieci mesi dell’anno, mentre la produzione 2025/26 è stimata in 1,76 milioni di tonnellate, pari a 29,4 milioni di sacchi, il livello più alto degli ultimi quattro anni. Le piogge abbondanti di novembre nello stato brasiliano di Minas Gerais, con precipitazioni pari al 160% della media storica, hanno temporaneamente alleviato i timori di siccità, ma la loro intensità ha spinto gli operatori a ricalibrare le aspettative, interpretandole come fattore ribassista di breve periodo.
Ma il possibile vero catalizzatore si è riflesso nella seduta di ieri – mercoledì 12 novembre – quando i contratti futures hanno subito una correzione improvvisa. L’Arabica ha chiuso in calo del 4,84%, mentre la Robusta ha perso il 5,46%. toccando i minimi di due settimane. Le vendite sono partite dopo le dichiarazioni del presidente Trump, che martedì sera aveva affermato l’intenzione di “ridurre alcune tariffe sul caffè”, e si sono intensificate quando ieri il segretario al Tesoro Scott Bessent ha annunciato che “nei prossimi giorni arriveranno sostanziali novità” sui prodotti agricoli non coltivati negli Stati Uniti, tra cui il caffè. La reazione ha interrotto un rally di tre giornate consecutive, in cui l’Arabica aveva guadagnato quasi il 7%. Il mercato ha immediatamente scontato l’ipotesi di un incremento dei flussi globali, spingendo i trader a chiudere le posizioni lunghe più speculative.
L’aumento dei prezzi ha già inciso sui conti delle aziende. Nella conference call del 29 ottobre, la CFO di Starbucks (-4% da inizio anno), Cathy Smith, ha segnalato un calo di 500 punti base del margine operativo rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, spiegando che l’impatto era “guidato principalmente dall’inflazione, trainata dai prezzi del caffè e dai dazi”. Dutch Bros (+10%) invece ha avvertito che “i costi del caffè rimarranno elevati fino al 2026”, contribuendo a un peggioramento di 60 punti base nel margine operativo. Boccate di ossigeno per le aziende, da Nestlè (+9% da inizio anno) a Keurig Dr Pepper (-16%) e JM Smucker (-0,26%).
In Italia, i dati dell’Osservatorio MIMIT sui prezzi di Milano confermano la pressione lungo tutta la filiera: il caffè tostato ha registrato a settembre una quotazione media di 19,54 euro al chilo, contro i 14,33 euro di gennaio, con un incremento del 36%. L’aumento dei costi industriali e la scarsità di scorte si stanno quindi traducendo in prezzi finali più alti, chiudendo il cerchio tra i mercati internazionali e la produzione domestica.


