Dopo 124 sedute lo S&P 500 è tornato in area di pullback, scendendo oltre il 5% dai massimi. È il terzo episodio dell’anno, un ritorno alla normalità dopo mesi in cui la volatilità sembrava sparita dai radar. Niente di anomalo, dunque: storicamente il mercato registra più di tre flessioni di questo tipo ogni dodici mesi. La correzione non è segnale di crisi, ma il respiro fisiologico di un ciclo maturo.

Il mercato sta cambiando tono. Non è un’inversione, ma una perdita di equilibrio. La volatilità è tornata, e con essa la selettività. Le ultime settimane hanno mandato segnali inequivocabili: il VIX che esplode, la breadth che peggiora, i settori guida che mancano, l’appetito per il rischio che si ritira. Le buone notizie non fanno più salire i prezzi, ma accelerano le prese di profitto. È un segnale preciso: il mercato ha smesso di credere nella perfezione.
Eppure, il Fund Manager Survey di novembre di Bank of America dipingeva un quadro opposto sul fronte del sentiment: liquidità globale scesa al 3,7%, ai minimi dal 2022, e posizionamento sull’equity ai massimi da due anni. La componente difensiva cresceva, più esposizione su healthcare, staples e banche, ma la concentrazione restava estrema. Il trade più affollato era ancora il Long Magnificent 7, segnalato dal 54% dei gestori, nonostante il 45% individuasse la bolla AI come principale rischio di coda.
Un mercato pieno di fiducia, ma povero di vere difese. Troppa esposizione, poca prudenza. È in questo disallineamento che si spiega la fase attuale: un mercato ancora forte nei fondamentali, ma sempre più fragile nella psicologia.
Il caso NVIDIA lo ha reso evidente. Ricavi record per 55 miliardi di dollari, guidance oltre le attese e un backlog superiore ai 500 miliardi fino al 2026. Eppure, il titolo è passato da +6% a -3%. Con lui, i listini americani: Nasdaq -2%, S&P 500 -1,6%.
Non è stata una reazione ai dati, ma al contesto.
Il quadro macroeconomico aiuta a spiegare il cambio di tono. I Nonfarm Payrolls di settembre hanno superato le attese, con 119 mila nuovi occupati, ma accompagnati da revisioni negative per i mesi precedenti, complessivamente -33 mila posti. Agosto è stato addirittura rivisto in contrazione di 4 mila unità.

Ogni mese del 2025 ha visto revisioni al ribasso tra la prima pubblicazione e la terza definitiva, in media per -70 mila posti, su una crescita mensile media di 81 mila, segno che la tenuta del mercato del lavoro non è più scontata. Il tasso di disoccupazione è salito al 4,4%, massimo dal 2021, mentre i salari orari hanno rallentato allo 0,2% mensile. Indicatori coerenti con un’economia che si raffredda, ma non deraglia.
La Fed osserva con cautela. Dalle dichiarazioni dei vari membri emerge una linea ancora prudente: Cleveland mantiene toni hawkish, ricordando che tagliare troppo presto potrebbe riaccendere l’inflazione, mentre Goolsbee riconosce la decelerazione del mercato del lavoro ma non vuole anticipare un allentamento aggressivo. Il rischio è passare da una stretta a un allentamento mal calibrato. E la banca centrale, dopo un ciclo di rialzi così rapido, non può permettersi un errore di comunicazione. In numeri, la probabilità di un taglio dei tassi a dicembre è crollata dal 98% di un mese fa al 33,1% attuale, con il no cut tornato dominante al 66,9%. Nessuna urgenza di agire quindi, nessun incentivo a forzare la mano. Ma le proiezioni per il 2026 restano ancora moderate: quattro tagli da 25 pb stimati con una probabilità del 26,2%, tre tagli scesi al 25,9%. Una Fed quindi più attendista, non che abbia rivisto il percorso di tagli dei tassi.
Nel frattempo, la volatilità sta tornando a fare il suo mestiere. Dopo mesi di calma apparente, i listini ricordano agli investitori che anche i bull market respirano.
Le revisioni dei payrolls, i segnali di rallentamento del lavoro e l’accumularsi di piccoli shock tecnici (come il calo del Bitcoin o l’aumento dei CDS di Oracle) compongono un quadro più sfumato. Il mercato non è più in modalità “risk-on” totale, ma non è in fuga: è una fase di digestione, in cui i flussi si spostano, non si ritirano.
Il 2025 ha già visto tre pullback, una correzione del 10% e una del 15%, ma nessun bear market. È un dato eloquente. Il mercato ha assorbito turbolenze, dazi e incertezze geopolitiche senza rompere la struttura rialzista. Le flessioni non hanno generato panico, ma opportunità di rientro.
Il ritorno in area di pullback non è la fine, ma una pausa necessaria per riallineare prezzi e fondamentali. Ogni bull market attraversa fasi di respiro: alcune servono a correggere l’eccesso di fiducia, altre a rinnovare le convinzioni di lungo periodo.
Certo, la striscia di 124 giorni senza un calo del 5% si è interrotta, ma quelle del 10% (144 giorni) e del 20% (722 giorni) restano aperte.
Tecnicamente, la perdita della media mobile a 50 giorni, la debolezza dei titoli speculativi e l’assenza di leadership settoriale segnalano una fase di consolidamento. La liquidità resta nel sistema, ma la fiducia non è più automatica. Forse questo non è il momento di inseguire il rialzo, ma di difendere il capitale.


