Fed Day: L’ora della verità per Wall Street

Ci siamo. L’attesa è finita. Oggi è il giorno cerchiato in rosso sui calendari di ogni investitore. Il Fed Day. Alle 21:00 (ora italiana), il sipario si alzerà sulle decisioni di politica monetaria della Federal Reserve. Ma non sarà solo una questione di “taglio sì o taglio no”: il vero market mover si nasconderà tra le righe delle nuove proiezioni economiche (SEP) e, soprattutto, nelle parole di Jerome Powell durante la conferenza stampa delle 21:30. È da lì che capiremo la traiettoria, non solo il punto di partenza.

Come arriva il mercato all’appuntamento?

Wall Street si presenta al banco di prova con il fiato corto. Dall’ultima decisione del 29 ottobre, lo S&P 500 segna un passivo dello 0,7%. È un dato che fa rumore: per ritrovare una performance negativa tra due meeting Fed dobbiamo riavvolgere il nastro fino a maggio scorso, interrompendo una striscia positiva che durava da quattro riunioni.

Questo calo non è casuale, ma figlio della sensazione di doversi muovere in un “corridoio di incertezza”, denso di nervosismo. Dall’effetto shutdown (risolto solo a metà novembre); all’assenza, il ritardo o comunque alla nebbia fitta sui dati macroeconomici, anche a volte divergenti; ai timori legati agli effetti dazi e alle politiche commerciali, così come agli annunci di Tariff Dividend fino alle nuove scommesse sul possibile nuovo Presidente Fed. In questo clima, l’indice principale non ha avuto la forza di aggiornare nuovi massimi storici (ultimo ATH si ferma infatti al 28 ottobre scorso), subendo anzi una correzione superiore ai 5 punti percentuali.

Un mercato ostaggio delle probabilità

Il nodo centrale è la relazione quasi meccanica che si è creata tra prezzi e il sentiment misurato dai FedWatch. Il grafico, che mette in parallelo le variazioni dello S&P 500 e le probabilità implicite sui tassi, evidenzia quanto il mercato sia diventato dipendente dal segnale monetario. Nei giorni in cui la probabilità di nessun taglio risaliva sopra il 50% lo S&P 500 ha vissuto le sedute peggiori, con cali compresi tra il 2% e oltre il 5%. Il minimo del periodo, registrato il 20 novembre, coincide con il picco di sfiducia del mercato sui tagli, quando lo scenario di status quo era valutato al 61%. Quando le probabilità sono tornate a favore di un taglio la pressione è diminuita. Non si è generato un vero rally ma si è almeno interrotto il ciclo discendente. Questo significa che il mercato non è guidato dalla macro di breve periodo ma da aspettative su un percorso di policy che continua a oscillare.

Cosa aspettarsi stasera? Attenzione alla reazione a caldo. La storia recente ci insegna la prudenza: le ultime tre sedute “Fed Day” si sono chiuse in territorio negativo. Curioso, però, notare come la volatilità intraday sia stata finora inferiore alla media delle ultime 26 decisioni. È una discesa ordinata, quasi “anestetizzata”. E proprio qui nasce il dubbio: questa bassa volatilità è segno di un mercato maturo che ha già prezzato tutto, o è solo la quiete ingannevole prima di una nuova tempesta di volatilità? Quel possibile movimento improvviso che si sprigiona quando Powell pronuncia la frase sbagliata al momento sbagliato. Stasera avremo la risposta.

La palla passa al Presidente della Fed. Non si tratta solo di confermare o modificare il percorso dei tassi. Si tratta di restituire al mercato una bussola che negli ultimi due mesi ha smesso di funzionare. Sarà decisivo capire se la Fed vede ancora spazio per sostenere le condizioni finanziarie oppure se il linguaggio penderà verso un approccio più cauto. Sono sfumature che cambiano il sentiment in tempo reale.

Il rebus di Powell

Mentre Wall Street trattiene il respiro, la vera domanda non è più “come sono i dati”, ma se la bussola della Fed funziona ancora. Per capire la posta in gioco stasera, dobbiamo sovrapporre la mappa che il Comitato aveva disegnato a settembre con il territorio accidentato che stiamo attraversando oggi. E le differenze iniziano a pesare.

Nel Summary of Economic Projections (SEP) di settembre, la Fed aveva tracciato un sentiero preciso per il 2025: crescita attorno all’1.6% per il 2025, disoccupazione al 4.5%, inflazione PCE al 3.0% e tassi in discesa verso il 3.6% entro fine anno

Tuttavia, già nel meeting del 29 ottobre, Powell aveva dovuto aggiustare il tiro: l’economia cresceva ancora a “ritmo moderato”, l’inflazione rimaneva “leggermente elevata” e, soprattutto, i “rischi al ribasso per l’occupazione erano aumentati”. Le Minutes di ottobre hanno poi svelato il retroscena: un Comitato diviso, preoccupato che l’inflazione avesse smesso di scendere e che il mercato del lavoro si stesse raffreddando più velocemente del previsto. Oggi, quel timore è diventato realtà. Non siamo né in un soft landing da manuale, né in un hard landing. Siamo nel peggiore degli scenari per un banchiere centrale: una normalizzazione asimmetrica.

La Fed aveva scommesso su un rallentamento del PIL (all’1,6% per il 2025). Ad oggi sembra perdere la scommessa. Con un PIL del secondo trimestre al 2,10% e le stime GDPNow (per il terzo trimestre) che puntano ancora più in alto, l’economia americana si sta dimostrando molto più resiliente del modello teorico. Come già evidenziato negli ultimi verbali, questa forza è trainata dai consumi delle fasce di reddito più alte (effetto ricchezza azionario) e dal boom degli investimenti in AI e Data Center.

Tuttavia, il “mostro” non è ancora sconfitto. Sulla carta, l’inflazione PCE al 2,8% (dato di settembre tuttavia) è inferiore a dove la Fed l’aveva prevista per fine anno a settembre. Ma la composizione preoccupa. I membri del comitato FOMC nei verbali di ottobre segnalavano due mine vaganti: la disinflazione nei servizi abitativi (affitti) che sta perdendo slancio e i dazi stanno creando nuove pressioni sui prezzi dei beni, con molte aziende che attendono solo “chiarezza politica” prima di scaricare i costi sui consumatori.

Il mercato del lavoro. È qui che la narrazione si fa drammatica. La Fed immaginava un mercato del lavoro in “morbido rallentamento” verso il 4,5%. I dati odierni (JOLTS in risalita a 7,67M ma licenziamenti in crescita a 1.8 milioni, il livello più alto dal 2023) dipingono invece una realtà a due velocità, esattamente come temuto da alcuni membri della Fed. La domanda di lavoro tiene, ma il turnover è bloccato e le assunzioni sono congelate, rendendo il mercato “più fragile di quanto il PIL suggerisca”. Il rischio citato nel comunicato di ottobre (“downside risks to employment rose”) è ora pienamente visibile nei dati sui licenziamenti.

Le piccole imprese invece (indice NFIB a 99) mostrano ottimismo e voglia di assumere, ma allo stesso tempo assistiamo a una pulizia degli organici, probabilmente nelle grandi corporation o nei settori meno efficienti. Un contesto che crea nervosismo.

Con un tasso di disoccupazione al 4,40% e rendimenti dei Treasury stabili sopra il 4,1%, Powell si trova in una strettoia: l’inflazione al 3% gli impedisce di essere troppo “colomba”, ma i licenziamenti in aumento gli vietano di essere troppo “falco”. Stasera dovrà convincere i mercati che la Fed può gestire questo atterraggio senza far schiantare l’occupazione.