Il progresso di Piazza Affari nel 2025 racconta di un indice che corre su più gambe, ma sempre più bancocentrico. Nel corso dell’anno, il FTSE MIB ha messo a segno un rialzo del 27,3% da inizio anno, con un picco vicino ai massimi intorno ai 44.800 punti a novembre, prima di stabilizzarsi intorno ai 43.600 punti all’inizio di dicembre. La versione equal weight dell’indice ha performato ancora meglio, con un +31%, segnale di un mercato che non è stato trascinato da poche storie isolate, ma sostenuto da una partecipazione ampia e diversificata.

Dentro questa ampiezza, però, la struttura dell’indice si è concentrata ulteriormente. I primi 10 titoli hanno mantenuto un peso intorno al 70% per tutto il periodo, dal 70,5% di inizio anno al 69,76% di fine novembre, con un picco del 71,43% tra agosto e settembre. La vera trasformazione è interna a quel blocco: la quota dei primi 3 titoli è passata dal 34,54% di inizio anno al 39,55% attuale, con un massimo del 40,84% a inizio agosto. I primi 2, in particolare, sono saliti dal 23,96% al 28,34%. Il listino è diventato meno orizzontale e più guidato da leader chiari, senza però perdere in breadth complessiva.

Il cuore dell’indice: il duopolio bancario
UniCredit e Intesa Sanpaolo rappresentano l’architrave del rally, con una leadership indiscussa. A fine 2024, entrambi i titoli pesavano intorno al 12%. Nel 2025, si sono staccati dal resto del listino, ingaggiando un testa a testa per il trono di “Re di Piazza Affari” e consolidando un duopolio a Milano.

UniCredit (primo titolo per market cap, ma secondo per incidenza) ha mostrato una progressione rapida, passando dal 12% iniziale al 16,6% di agosto, per poi cedere il podio a Intesa da ottobre, chiudendo novembre al 14,16%. Intesa Sanpaolo, con una crescita più lineare, è salita dal 12% a fine 2024 al 14,27% a fine novembre, con un massimo del 14,20% a ottobre.
Questa concentrazione non è solo un fatto di pesi: è una questione di contributo alla performance. In un indice che ha guadagnato il 27,3%, UniCredit da sola spiega circa il 28% del rialzo complessivo (con un +71% YTD), mentre Intesa contribuisce per un altro 15% (con un +48% YTD). Insieme, rappresentano il 43% della performance annuale del FTSE MIB. Quando le due grandi banche italiane si muovono, l’indice segue inevitabilmente
Un rally ampio, non un rally di pochi titoli
La forza del listino non si esaurisce nei leader. L’elenco delle performance YTD racconta una storia di mercato “largo”, non “stretto”. Telecom Italia e Iveco hanno raddoppiato il valore (+102% e +100%), mentre Banca Popolare di Sondrio, Leonardo, Italgas e BPER Banca viaggiano tra +71% e +86%. UniCredit è a +71%, ma accanto a lei brillano Lottomatica, Banca Mediolanum, Unipol e Banco BPM con rialzi tra +55% e +69%. Anche titoli come Poste Italiane, Intesa Sanpaolo, Prysmian, Snam, Enel, Eni, Generali, Fineco, Terna, Mediobanca e Hera registrano progressi solidi, tra +18% e +48%.

In territorio negativo sono 12 i nomi, con debolezze concentrate in settori specifici: Tenaris, Saipem, Recordati, Campari, STMicroelectronics, Brunello Cucinelli, Ferrari, Stellantis, Inwit, Nexi, Diasorin e Amplifon. È una lista che incrocia lusso, farmaceutico, servizi di pagamento e auto. Il fatto che l’indice equal weight superi il FTSE MIB tradizionale conferma numericamente che la concentrazione amplifica, ma non sostituisce, il contributo del resto del listino.
La nuova geografia dei pesi: i movimenti nei Top 10
All’interno delle prime 10 posizioni, i cambiamenti sono chiari e coerenti con la narrativa dell’anno. Enel si è mossa in un corridoio stretto tra 9,6% e 11,2%, rimanendo stabilmente il terzo pilastro. È la componente difensiva che bilancia la volatilità bancaria, con un +28% YTD che l’ha portata a aggiornare massimi storici (tre volte nel 2025), un traguardo assente dal gennaio 2021. Il motore del rialzo è stato il miglioramento progressivo dei conti trimestrali, che ha rassicurato il mercato sulla sostenibilità del debito e dei profitti. Il tutto con aumenti di dividendi e riduzioni del debito che continuano a attrarre investitori.
Ferrari ha mantenuto il quarto posto, ma il suo peso è sceso dal 9,6% di inizio anno al 6,53% di fine novembre, con il titolo in calo del 18% e un drawdown del 31% dai massimi – un calo così negativo dai massimi dell’anno che mancava dal 2019. Nonostante ricavi in crescita dell’8% e utile netto del 7% nei primi 9 mesi, il mercato ha punito una crescita “normale” a singola cifra, inadeguata per multipli stellari. Il momento clou è stato il Capital Markets Day del 9 ottobre: l’AD Benedetto Vigna ha presentato un piano al 2030 “realistico e prudente”, con upgrade della guidance 2025 ma senza “fuochi d’artificio”. Gli analisti l’hanno bollato come “poco ambizioso”, scatenando un crollo del 15,41% in una seduta.
Generali ha tenuto il quinto posto, oscillando tra 5,1% (luglio) e 7,1% (aprile-maggio), chiudendo novembre al 5,37% (da 6,7% iniziale). L’assicurativo resta rilevante, ma arretra rispetto al blocco bancario. Eni, stabile al sesto, è passata dal 5,6% al 5,09%. Ma attenzione però, non è un crollo. Eni è cresciuta di circa il 25% da inizio anno, tuttavia, è stata “superata a destra” dalla velocità supersonica di altri titoli. Prysmian è la “stella silenziosa”: dal 3,5% al 4,01%, superando Stellantis e Leonardo grazie al boom della domanda di cavi per la transizione energetica.
Stellantis ha seguito un sentiero opposto, scendendo dal 5,2% verso il 3%. Leonardo è entrata stabilmente nei Top 10 da marzo, scalando fino alla settima posizione ad aprile, oggi tuttavia scendendo in nona, ma consolidando oltre il 3%. Il risultato? Un Top 10 che pesa il 70%, ma con un mix mutato: più banche, infrastrutture e difesa; meno auto, lusso (uscita Moncler dalla top 10) e tecnologia (uscita STM dalla stessa classifica).
Il quadro settoriale: la finanziarizzazione in atto
La trasformazione è ancora più evidente nella composizione settoriale del market cap.
Il bancario è il protagonista assoluto: da 159 miliardi a inizio anno a oltre 238 miliardi a fine novembre, con peso salito dal 31,51% al 38,69%. Un +7 punti che riflette la natura del rally italiano. Le banche generano 79 miliardi dei 111 miliardi di market cap creati dall’intero indice. Il 71% del valore totale. Nessun settore si avvicina a questo contributo. È stato un anno d’oro, tra risiko, scalate e trimestrali record, rendendo Piazza Affari più bancocentrica che mai.

Eppure, ad inizio 2025, c’era equilibrio tra bancario (31,51%) e il blocco industriali-energia-utilities (31,6%). Ora, quell’equilibrio è rotto: il bancario al 38,69%, il blocco opposto al 32%. Sette banche che oggi valgono più di 14 società sommate tra industria, energia e utilities (199,5 miliardi vs 238). Le utilities sono salite al 15,36% (+0,9 punti), generando 21 miliardi di nuova cap; industriali +15 miliardi; energia solo +3 miliardi.
L’automotive è il grande sconfitto. Il settore auto e parti passa da 76,6 miliardi a meno di 60, con peso dal 15,16% al 9,73% – una perdita di 16,6 miliardi, appesantita in primis dall’uscita dal listino principale di Pirelli ma anche dalla transizione elettrica e dalla concorrenza globale.
I settori più piccoli oscillano senza alterare l’equilibrio generale. La telecomunicazioni resta marginale (2,08%), nonostante il +102% di TIM; Il sanitario segna ad oggi l’anno più debole, cedendo circa 1,8 miliardi di market cap e con un’incidenza che dal 2,03% passa al 1,37%. Food, materiali e consumo restano satelliti.
Un listino milanese che oggi presenta una concentrazione senza precedenti. Quasi il 40% della performance dipende da tre aziende, due banche e una utility, un assetto che rende l’indice più sensibile allo spread e alle scelte della BCE, e meno rappresentativo “diretto” dell’economia manifatturiera. Il 2025 segna di fatto l’anno della finanziarizzazione di Piazza Affari. L’economia reale, dall’auto all’industria, cede il passo alla forza dei flussi di cassa generati da credito e reti regolamentate. Eppure, dentro questa trasformazione, l’indice supera nettamente lo Stoxx Europe 600, +25.7% contro +14%, confermando una solidità che non si spiega solo con lo spread sotto controllo (sotto i 70 punti) o con la serie di upgrade arrivati dalle principali agenzie di rating. Il mercato ha premiato la specificità italiana. E la sta riscoprendo come un valore.


