Nel 2025, se l’oro ha rubato la scena con i suoi bagliori da protagonista indiscusso, toccando record su record – 49 nuovi massimi storici nell’anno e quotazioni oltre i 4.200 dollari l’oncia – gran parte del suo splendore deriva proprio dal crepuscolo del dollaro. Dedollarizzazione, debasement del dollaro, posizioni short sull’USD: questi non sono stati solo slogan da trader affollati, ma i fili conduttori di un anno iniziato con l’euforia elettorale di novembre 2024. Eppure, come un dramma shakespeariano, l’ottimismo si è trasformato in un lento dissolversi, con l’indice US Dollar che ad oggi segna un calo da inizio anno dell’8,5%, scivolando intorno ai 99,18 punti. Il tutto mentre ieri il paniere segnava la sua 8° seduta consecutiva giornaliera in calo, così come aveva chiuso il primo semestre come il peggiore dal 1973.
Osserviamo il cammino. Nei 30 giorni che hanno preceduto le elezioni USA del 2024 il dollaro ha imboccato un sentiero che ricorda da vicino quello del 2016, l’anno della prima vittoria di Donald Trump. Nei successivi 54 giorni post-voto si è apprezzato di circa 5 punti percentuali, come se due linee separate da nove anni finissero per rispondere allo stesso richiamo. Lo slancio pre elettorale si ripete, quasi un riflesso condizionato, ovvero quell’ottimismo elettorale che genera un impulso quasi automatico. Il mercato immagina crescita, stimoli fiscali, ritorno dell’eccezionalismo USA.

Poi però la curva cambia direzione e torna verso il basso, come allora. Non perché la storia si ripeta, ma perché le condizioni che la sostengono hanno simile architettura. Come nel primo mandato di Trump, l’iniziale ascesa ha lasciato spazio a un deprezzamento marcato, con la linea verde dell’attuale ciclo che traccia fedelmente la grigia del passato. Un apprezzamento post-elettorale seguito da una discesa. L’effetto “liberation day” del 2025 è stato amplificato, con tariffe commerciali estese a partner globali, generando un’incertezza planetaria che ha fatto impennare la volatilità. A differenza del 2017, focalizzato su Cina, Canada e Messico, qui le minacce hanno abbracciato il mondo intero, erodendo la fiducia nel dollaro come rifugio.

Eppure, il trade “long dollaro” era il secondo più affollato a inizio anno, secondo i sondaggi Bank of America tra i gestori. Un podio che ha vacillato e che solamente a giugno ha visto cambiare direzione a Short US dollar, e che oggi, nel report di novembre, si posiziona ancora sul podio, come terzo trade, sebbene con solo il 6%.

Se la storia non si ripete ma fa rima, come recita l’adagio, un proseguimento su questa traiettoria potrebbe spingere il DXY verso i 95-97 punti, simili ai minimi del 2018.

Favorirebbe le esportazioni USA, certo, ma aumentando le pressioni sui costi delle importazioni e l’inflazione domestica, un incubo per la Fed. Giusto per ricordarlo, tra dicembre 2017 e febbraio 2018 il dollaro proseguì la discesa, nonostante i rialzi dei tassi, perché fattori come la ripresa economica globale riducendo il vantaggio USA sui rendimenti, e l’incertezza sulle riforme fiscali di Trump, approvate solo a fine 2017 ma con effetti ritardati, prevalsero sulle aspettative iniziali. Inoltre, la retorica dell’amministrazione, inclusi commenti espliciti su un “dollaro debole” per favorire il commercio, come quelli di Mnuchin a Davos a gennaio 2018, accelerarono il sell-off, rompendo con la tradizionale politica del dollaro forte e spingendo il DXY verso nuovi minimi.
Oggi tre forze hanno orchestrato questa svolta. Prima, la geopolitica: il congelamento delle riserve russe nel 2022 aveva già incrinato la fiducia, ma i dazi del 2025 hanno amplificato il rischio politico di detenere dollari. La quota di riserve globali in USD è scivolata al 56,32% nel secondo trimestre, mentre l’oro nelle riserve centrali ha toccato massimi storici, superando il 23%, un raddoppio dal 10% del 2015. Dedollarizzazione? Forse overhyped, ma i fatti parlano: Cina e Indonesia hanno siglato accordi per settlement in valute locali, bypassando l’USD, e lo yuan ha guadagnato quota nelle riserve.

Il secondo elemento della parabola riguarda l’intreccio tra politica fiscale e monetaria. Gli Stati Uniti arrivano al nuovo ciclo con un debito pubblico sopra i 38 trilioni di dollari e una pressione crescente sulla Fed perché allenti rapidamente le condizioni finanziarie. È la tipica situazione in cui politica e banca centrale si guardano da lati opposti dello stesso tavolo. La Casa Bianca ha interesse a tassi più bassi, la Fed deve difendere credibilità e ancoraggio delle aspettative. In mezzo scorre la discussione sul futuro della sua leadership, un tema che raramente favorisce la stabilità valutaria. Quando nell’aria c’è incertezza sull’indipendenza della banca centrale, il mercato prezza immediatamente un dollaro più vulnerabile.
Il tutto mentre il mercato del lavoro USA perde slancio, la crescita non replica più il ritmo degli anni precedenti e le curve forward mostrano una convergenza che indebolisce ulteriormente il biglietto verde. La Fed è vista tagliare circa 53 punti base entro il 2030, mentre la BCE è attesa al rialzo di 54. Il divario che teneva forte il dollaro nel 2023-2024 si azzera, spegnendo uno dei suoi motori principali.

C’è poi un cambiamento più profondo, visibile nei grafici della correlazione mensile tra DXY e S&P 500. Per decenni, quando la Borsa scendeva, il dollaro saliva. Era il contrappeso naturale al rischio. Oggi quel meccanismo si è spezzato. Le due curve si muovono insieme o si ignorano. Non si compensano più. Il dollaro non apre l’ombrello quando aumenta la pioggia finanziaria. Quando un asset smette di comportarsi come rifugio, significa che il premio di stabilità si sta assottigliando.

Wall Street lo chiama “debasement trade”: una fuga verso oro e asset alternativi per hedgeare l’erosione del dollaro, spinta da deficit cronici e stampa monetaria. L’idea non è nuova. Si ripresenta ogni volta che deficit elevati e politiche monetarie espansive evocano il ricordo antico delle monete “alleggerite” dai sovrani, dai clips romani alle versioni moderne del Qe. Nel 2025 questa narrativa ha trovato un’eco amplificata: le menzioni sui media sono esplose e il loro ritmo ha seguito da vicino l’accelerazione del prezzo dell’oro.

Gli argomenti a favore sono chiari. Il debito globale cresce, gli Stati Uniti viaggiano intorno al 120% del PIL e la logica della fiscal dominance tende a spingere verso condizioni monetarie più permissive. I segnali contrari però non mancano. Il DXY è rimasto sorprendentemente stabile da aprile, i rendimenti non mostrano alcuna deriva esplosiva e i breakeven dei TIPS restano compressi. In altre parole, la storia del debasement è potente, ma il mercato obbligazionario non la sta validando in pieno.


